martedì 22 giugno 2010

Il WC si ribella!!!

La leggenda metropolitana diventa realtà in uno stabile di quarto oggiaro
Pitone reale sbuca dal water
Salvato dagli esperti dell'Enpa
Il serpente ha messo fuori la testa: panico tra gli inquilini, poi il recupero. Forse gettato di proposito

http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/10_giugno_21/pitone-reale-esce-water-quarto-oggiaro-fogne-1703239303472.shtml

La quaglia italiana non salta più

I dati della Società italiana di ginecologia e ostetricia
I centomila figli del coito interrotto
In Italia il numero di gravidanze impreviste è da primato. L'esperta: «Si tratta di un'enormità»

http://www.corriere.it/cronache/10_giugno_21/figli-coito-interrotto-margherita-de-bac_962be456-7d63-11df-b32f-00144f02aabe.shtml

sabato 19 giugno 2010

In mano ai petrolieri l’Abruzzo si ribella



Norther petroleum, Petroceltic, Puma petroleum, Medoil & gas, Forest oil. Non siamo oltre Oceano come i nomi di queste grandi corporation degli idrocarburi potrebbero far credere. Ci troviamo nel verde dell’Abruzzo, ai piedi della Majella, tra parchi nazionali, aree protette, siti d’interesse naturalistico e comunitario, boschi e vigneti di pregiato Montepulciano, ulivi secolari, greggi di pecore e aziende che fabbricano pasta, formaggi, prosciutti, fino al mare dove sorge la costa dei Trabocchi amata da D’Annunzio. Un’oasi di verde e natura sottratta ancora alla grande speculazione turistica ma non a quella del petrolio. A causa anche dell’acquiescenza delle diverse maggioranze passate in regione negli ultimi anni, quasi la metà del territorio abruzzese è finito nelle mani delle grandi multinazionali degli idrocarburi. Senza saperlo il 90% della popolazione vive all’interno di un distretto petrolifero. 221 sono i comuni fino ad ora coinvolti, concentrati nella provincia di Chieti (77%), Pescara (71%) e Teramo (67,5%), secondo quanto riporta una relazione diffusa dal Wwf e da Legambiente. Alla fine del 2007 erano stati perforati 722 pozzi: 383 per produzioni a terra e 87 attivi in mare, ai quali tra breve se ne aggiungeranno altri 15. Più del Pecorino questa terra evoca ormai la Groviera. Una gigantesca piattaforma petrolifera della compagnia inglese Medoil è prevista a soli 4 km dalla costa teatina, tra San Vito e Ortona (nel Nord Europa il limite è di 50 km e negli Usa di 160 km, con i risultati comunque disastrosi che abbiamo visto recentemente nel golfo del Messico). Ad Ortona per costruire il “Centro oli”, che non è un mega frantoio di olio extra vergine d’oliva ma un polo petrolchimico che raffina e stocca petrolio di bassa qualità da cui si ricaverà solo olio combustibile e non benzine, sono state tagliate le viti del Montepulciamo doc. Tutto questo avverrà in cambio di niente. Le corporation non portano lavoro, hanno i loro tecnici super specializzati che vengono da fuori mentre gli impianti sono automatizzati. Le royalties previste sono ridicole, appena il 10% su terra e solo il 4% in mare, mentre all’estero arrivano fino al 90%. La Libia prende l’85%, il Kazakistan il 90%, la Russia l’80%. Per dire no a questo scempio del territorio che porta solo devastazione ambientale e rischi per la salute, i cittadini abruzzesi, che hanno già raccolto 30 mila firme, si sono dati appuntamento domenica 30 maggio a Lanciano per tenere una manifestazione sotto l’egida del comitato “No petrolio”.
Il governo in questa partita sta giocando sporco. Silvio Berlusconi è venuto meno ai suoi impegni pubblici presi a Chieti e Pescara durante l’ultima campagna elettorale, quando aveva dichiarato che in Abruzzo non ci sarebbero state estrazioni di petrolio. Ma una volta incassati i voti il suo esecutivo ha impugnato di fronte alla Corte costituzionale la legge regionale 32/2009 varata dal suo stesso candidato, Chiodi. La legge tutela il territorio e la costa da perforazioni ed estrazioni selvagge d’idrocarburi liquidi. Una normativa virtuosa che però contiene una falla gigantesca. Permette, infatti, l’estrazione d’idrocarburi gassosi. Un difetto che se non verrà corretto al più presto consentirà il pompaggio di gas metano sotto il lago artificiale di Bomba e la costruzione a ridosso della diga in terra più grande d’Europa di una raffineria con una ciminiera alta più di 40 metri. Estrarre e raffinare gas altamente infiammabile a ridosso di una diga che trattiene 60 milioni di metri cubi d’acqua, in un’area ritenuta ad alto rischio idrogeologico e sismico con smottamenti e frane continue, per giunta in un paesino di nome Bomba, lascerebbe spazio a timori in chiunque. Non alla Forest Cmi spa, filiale italiana della Forest oil con sede a Denver nel Colorado, titolare della concessione ottenuta nel segreto più assoluto nel 2004. Diverso l’avviso dell’Agip, concessionaria dei terreni, che già negli anni 60 abbandonò ogni progetto dopo la tragedia del Vajont, quando un blocco di montagna franò nel bacino idroelettrico provocando un’onda anomala che oltrepassò la diga e travolse a valle il paese di Longarone. Duemila morti in un mare di fango e detriti, molti mai ritrovati. Nel 1992 la decisione di chiudere finalmente i pozzi per la presenza di un dissesto geologico in progressivo peggioramento. La spalla destra della diga – riferiva il rapporto – poggia su una «frana di notevoli proporzioni» oltre alla presenza di «non trascurabili rischi di carattere sociale e ambientale», per concludere: «Sembra che ancora oggi non esistano le condizioni generali per la messa in coltivazione del giacimento Bomba e che necessita invece l’acquisizione di nuovi dati e/o il verificarsi di mutamenti delle condizioni, quale per esempio la decisione dell’Acea di svuotare il lago». Poiché il metano si trova in prevalenza sotto l’invaso artificiale, l’estrazione provocherebbe quella che i geologi chiamano “subsidenza”, ovvero un abbassamento del terreno con rischio di frane e danni sulla diga. A Ravenna l’estrazione di metano ha prodotto un abbassamento del terreno di 3 metri. Le nuove condizioni richieste dall’Agip non sono mai intervenute ma alla Forest non interessa. La multinazionale statunitense trova comunque conveniente trivellare e raffinare, nonostante l’esiguità del giacimento (appena una settimana del fabbisogno nazionale), perché il costo commerciale del gas in Italia è più elevato degli Usa e permette facilmente di ammortizzare le spese. Inoltre la legislazione italiana, carente in materia di sicurezza, pone vincoli di tutela ambientali e della salute umana molto più bassi di quella statunitense. Morale, la Forest viene ad arricchirsi in Italia avvelenando i cittadini abruzzesi perché non può farlo negli Usa.
I cittadini di Bomba, mille abitanti a 400 metri di altitudine, hanno saputo del progetto soltanto nel 2009, quando la Forest ha pensato bene d’informare la popolazione che un’enorme raffineria doveva nascere appena fuori il paese (apertura prevista degli impianti nel 2012). Forse era il caso, visto che il paese perderà il suo bel panorama sul lago, dove nel 2008 si sono tenuti i giochi del Mediterraneo di canottaggio ed a settembre sono previsti i campionati italiani. Terminato il turismo. Non ci sarà più nemmeno l’aria buona perché – come spiega la professoressa Maria Rita D’Orsogna nei suoi documentati lavori di controinchiesta (http://dorsogna.blogspot.com/) – l’idrogeno solforato, residuo rilasciato nell’aria dalla raffinazione indispensabile per ripulire il gas, è una sostanza letale per l’ambiente, estremamente infiammabile, esplosiva, tossica e dallo sgradevole odore di uova marce. L’organizzazione mondiale della sanità raccomanda di non superare 0,005 parti per milione (ppm), mentre in Italia il limite massimo previsto dalla legge per questa sostanza è pari a 30 ppm: ben 600 volte di più. Si vedranno lingue di fuoco e le orecchie saranno allietate dall’assordante rumore di fondo generato dagli impianti di estrazione e raffinazione. Finiti gli ulivi e le vigne, azzerata l’economia eno-gastronomica della zona. Niente più voli d’aquile a sorvolare la valle. La Forest ha pensato di risarcire la comunità promettendo qualche euro in meno sulla bolletta e compensi ridicoli per il comune, intorno alle 100 mila euro l’anno. Appena 42 mila per gli altri comuni interessati, ma i sindaci di Pennadomo, Roccascalegna, Torricella Peligna, Archi, Colledimezzo, Atessa e Villa santa Maria hanno subito detto no al progetto. L’8 maggio anche la giunta comunale di Bomba, dopo le iniziali titubanze, si è detta contraria. I cittadini di Bomba si sono mobilitati dando vita ad un comitato, “Gestione partecipata del territorio” (www.gestionepartecipataterritorio.it). Il loro primo obiettivo è stato quello di informare e sensibilizzare la popolazione dell’intera zona, completamente all’oscuro dei fatti e delle loro conseguenze. Poi hanno deciso di espletare tutti i ricorsi legali possibili prima di prendere altre iniziative. Una petizione contro il progetto ha già raccolto in poco tempo oltre 2 mila firme. Domenica saranno anche loro in piazza.
Paolo Persichetti

in data:01/06/2010

fonte: liberazione.it

L’eldorado africano, dove si muore di piombo e mercurio



Dareta, piccolo villaggio distante tre ore e mezza in auto da Gusau, la capitale dello stato nigeriano dello Zamfara, è un insieme di poche capanne di fango. Siamo nel nord povero saheliano del “Gigante dai piedi d’argilla”, paradossalmente ricco di risorse minerarie come oro, rame, manganese e ferro. E’ in posti come Dareta in cui si guardano in faccia le statistiche secondo cui la popolazione del primo produttore africano di petrolio vive con meno di due dollari al giorno. Nello Stato dello Zamfara lo sfruttamento delle risorse aurifere è stato affidato di recente ad una compagnia cinese. Ma nei villaggi dei distretti di Anka e Bungudu si scava illegalmente e senza alcuna protezione alla ricerca dell’oro da immettere sul mercato nero. In questo Stato del nord musulmano della Nigeria, da gennaio si sono contati almeno 163 morti, di cui 111 bambini, per contaminazioni da piombo. Gli intossicati sono oltre 350. Le vittime del piombo dell’eldorado dei poveri nello Zamfara sono entrate a contatto con acqua, terra e strumenti contaminati. Si pensava che i bambini fossero morti per la malaria. Poi Medicine Sans Frontièrs ha condotto dei test e si è fatto fronte all’emergenza.
La vicenda della Nigeria non è un caso isolato. Lo sfruttamento illegale delle risorse minerarie è una piaga in molti paesi dell’Africa sub-sahariana. Nel Ghana, altro paese africano che come la Nigeria si affaccia sul Golfo di Guinea, il fiume Pra, fonte di acqua per la regione di Cape Coast, è stato inquinato con gli agenti chimici usati dai minatori illegali di oro. Se in Nigeria cercare illegalmente l’oro ha ucciso oltre 160 persone per intossicazione da piombo, in Ghana vi sono state contaminazioni mortali provocate da vapori di mercurio. L’aumento del prezzo dell’oro, tradizionale bene rifugio, nell’attuale congiuntura di crisi internazionale, ha portato un maggior numero di africani a prendersi maggiori rischi nella corsa all’oro da contrabbandare.
In Sudafrica, paese che abbonda di miniere in dismissione e terzo produttore mondiale di questo minerale, l’anno scorso per un’incendio in una miniera illegale d’oro sono rimaste uccise 61 persone. La manovalanza da sfruttare e mandare a morire sottorerra non manca grazie a flussi di immigrati irregolari dallo Zimbabwe o del Mozambico.
Lo sfruttamento illecito di oro ha un impatto ambientale devastante. Inquina i corsi d’acqua, cosa che si riflette sulla catena alimentare e avvelena la terra. Nelle zone dei giacimenti illegali si presenta poi il problema associato della caccia. Ovviamente illegale, che serve a sfamare chi strae di nascosto materie preziose. Le zone sfruttate, presentano in seguito crateri che si rempiono di acqua contaminata e stagnante, habitat ideale per le zanzare, portatrici di diversi ceppi di malaria.
Se, nello sfruttamento illecito di materie preziose, a fare il lavoro sporco per pochi soldi è la solita carne da macello senza alternativa lavorativa, la parte del leone con i guadagni e l’organizzazione del business di tali attività non la fanno certo gli abitanti di villaggi come Dareta.
In un altro posto in cui lo sfruttamento di risorse naturali è oltraggioso e dove la maggioranza della popolazione vive miseramente, la Repubblica Democratica del Congo (Rdc), è l’esercito regolare (Fardc) oltre che i vari gruppi armati a gestire questi business illeciti.
Secondo una recente inchiesta delle Nazioni Unite “quasi ogni sito minerario nelle province del nord e sud Kivu (est del paese) è controllato da un gruppo militare, sia regolare che irregolare”.
Amnesty International conferma, citando un sergente dell’esercito congolese, che in Rdc, i militari sfruttano, regolarmente le risorse del Kivu (la casserite in particolare). I profitti vengono spartiti tra alcune brigate delle Fardc e il quartier generale regionale dell’esercito nella zona di Bukavu.
Secondo l’Onu l’oro contrabbandato in Rdc viaggia verso Uganda, Burundi ed Emirati Arabi Uniti.
La questione dei traffici sporchi fa di tutto il mondo un paese. Se è dall’Africa che arrivano molti materiali preziosi da immettere sul mercato illecito internazionale, lo stesso continente fa da pattumiera per i paesi ricchi.
Proprio in Nigeria, in cui si è registrata la strage del piombo causata dall’estrazione illegale di oro, è stata intercettata nelle scorse ore, al porto di Lagos una nave cargo europea contenente otto container di rifiuti tossici da smaltire sul suolo africano.
Si tratta di fenomeno diffuso in Africa occidentale (pensiamo al caso Trafigura), ma anche in paesi fortemente instabili come la Somalia. Quando i pirati somali assaltano le navi occidentali, dal loro punto di vista, battono cassa per chi li avvelena scaricando scorie tossiche da vent’anni.
Francesca Marretta

in data:07/06/2010

fonte: liberazione.it

I Nas sequestrano mozzarelle tedesche che diventano blu



Torino, 19 giugno 2010 - Non erano destinate all’alimentazione dei puffi ma a quella degli umani le settantamila mozzarelle che i Carabinieri del NAS di Torino hanno sottoposto a sequestro cautelativo sanitario presso una importante piattaforma della grande distribuzione che rifornisce numerosissimi discount del Nord Italia. L’iniziativa dei militari prende lo spunto dalla denuncia di una donna di Torino che aveva osservato l’incredibile fenomeno, ripreso con un telefonino, in virtù del quale all’atto dell’apertura, una mozzarella aveva rapidamente mutato colore assumendo una impressionante pigmentazione blu.


Il prodotto, tipico della tradizione alimentare italiana, proveniva da uno stabilimento industriale tedesco, presso il quale era stato commissionato dalla società italiana che lo commercializza. Gli uomini del NAS apprendevano inoltre che, a seguito di numerose altre segnalazioni analoghe a quella da loro raccolta, l’importatore e distributore italiano aveva avviato il "richiamo" del prodotto, dopo aver contestato l’incredibile fenomeno ai propri fornitori d’oltre frontiera. Si ignorano al momento le cause della mutazione del colore delle mozzarelle al contatto con l’ossigeno.


Alcuni campioni del prodotto sono stati depositati per le analisi microbiologiche e chimiche, rispettivamente presso i laboratori dell’istituto zooprofilattico di Torino e del Centro antidoping del San Luigi Gonzaga di Orbassano. Allo stato non vi sono elementi per configurare ipotesi di reato, elementi che potrebbero invece emergere nel momento in cui i prodotti alimentari risultassero essere inquinati da sostanze tossiche o da forti cariche batteriche.


L’intera partita di mozzarelle tedesche è stata rintracciata e bloccata e non sussiste alcuna possibilità di ritrovarne qualche esemplare nei banchi frigo della grande o piccola distribuzione. Ci vorrà qualche giorno per poter conoscere per quale strana reazione chimica o per quale diverso fenomeno i latticini subiscano la strana trasformazione.


Metà delle mozzarelle in vendita sono fatte con latte straniero o addirittura una su quattro con cagliate industriali (semilavorati) provenienti dall’estero. L’operazione dei Nas fa dunque luce su un fenomeno che inganna consumatori e allevatori italiani e mette a rischio la salute dei cittadini. È quanto afferma la Coldiretti nell’esprimere apprezzamento per l’operazione dei Carabinieri dei Nas di Torino.


Dalle frontiere italiane sono passati in un anno - sostiene la Coldiretti - ben 1,3 miliardi di litri di latte sterile, 86 milioni di chili di cagliate e 130 milioni di chili di polvere di latte di cui circa 15 milioni di chili di caseina utilizzati in latticini e formaggi all’insaputa dei consumatori e a danno degli allevatori. Il risultato è che - precisa la Coldiretti - tre cartoni di latte a lunga conservazione su quattro venduti in Italia sono stranieri mentre la metà delle mozzarelle in vendita sono fatte con latte o addirittura cagliate provenienti dall’estero ma nessuno lo sa perché non è obbligatorio indicarlo in etichetta.


Secondo l’indagine Coldiretti-Swg sulle abitudini degli italiani la quasi totalità dei cittadini (97 per cento) considera necessario che debba essere sempre indicato in etichetta il luogo di origine della componente agricola contenuta negli alimenti. Colmare questo ritardo - continua la Coldiretti - è un grande responsabilità nell’interesse degli imprenditori agricoli ma soprattutto dei consumatori e della trasparenza e competitività dell’intero sistema Paese.

Un segnale incoraggiante - sottolinea la Coldiretti - arriva dal Parlamento Europeo che ha votato finalmente a favore dell’obbligo di indicare il luogo di origine/provenienza per carne, pollame, prodotti lattiero caseari, ortofrutticoli freschi, tra i prodotti che si compongono di un unico ingrediente (che oltre al prodotto agricolo prevedono solo degli eccipienti come acqua, sale, zucchero) e per quelli trasformati che hanno come ingrediente la carne, il pollame ed il pesce. Si tratta di novità positive contenute, grazie al pressing della Coldiretti, nel testo votato in seduta plenaria in prima lettura, della Relazione di Renate Sommer relativo alla proposta di regolamento sulle indicazioni alimentari ai consumatori.

fonte:qn.quotidiano.net/

La strategia del super-consumo: cibi «arricchiti» per creare dipendenza



MILANO – Ingrassiamo anche perché mangiamo troppo, ma la colpa potrebbe non essere tutta e solo nostra. Anzi, probabilmente ingurgitiamo cibi che creano dipendenza perché sono stati manipolati dai produttori e arricchiti con sali, grassi e zuccheri per non farci smettere di volerne. È questa la teoria del professore di Harvard David Kessler, ex commissario della Food and drug administration statunitense, che a questo argomento ha dedicato un libro («The End of Overeating», non esiste ancora traduzione italiana ma si può acquistare su Amazon).

COME PER LE SIGARETTE – La palatabilità è uno dei fattori che più interessano le società produttrici di alimenti: che si tratti di un formaggio dal gusto strutturato e deciso, o del ripieno delicato della pasta fresca, è l’incontro con il palato del consumatore a decretare il successo o il fallimento di un cibo in fase di vendita. Per questo chimici e ricercatori lavorano per migliorare – e potenziare – l’esperienza di gusto dei propri prodotti. Ma questa tendenza è stata portata all’eccesso, sostiene il professor Kessler, proprio come avvenne con le sigarette «potenziate» con ammoniaca e altri additivi, per aumentare la voglia di fumarne ancora, denuncia che non abbandona i produttori di sigarette dal 2005 in poi. E l’eccesso guida i produttori a ricercare non solo la gioia del gusto, ma quella di un’esperienza innaturale, chiamata da Kessler della «iper-palatabilità».

CIBI ARRICCHITI – Per raggiungere lo scopo vengono utilizzate tecniche diverse. La prima e più comune è quella di «aumentare» gli ingredienti delle pietanze con sali, zuccheri e grassi per renderli più appetibili al palato. La seconda è quella di creare una nuova esperienza di masticazione: se i cibi sono facili da masticare e deglutire, grazie a morbidezza all’incontro con lingua e denti, si avrà voglia di buttar giù velocemente un secondo boccone. Questi accorgimenti stimolerebbero i nostri recettori nervosi esattamente come avviene con l’assunzione degli oppioidi (come la morfina), causando la dipendenza da cibo e a ruota, divenendo possibile causa di sovrappeso. Proprio per combattere questa malattia, l’università di Yale ha creato la Yale Food Addiction Scale, utilizzata dai medici statunitensi soprattutto per il controllo dell’obesità infantile. La scala parte da un questionario e riconosce tra i consumatori quali sono a rischio sovrappeso a causa di una sensibilità maggiore a queste sostanze arricchite e quali no.

Eva Perasso

fonte: corriere.it

Derubavano cadaveri, orrore a Genova



GENOVA
Avrebbero rubato monili, protesi ortopediche e denti d’oro alle salme riesumate dopo la sepoltura ventennale, ma anche pregiati arredi di marmo delle tombe al cimitero monumentale di Staglieno a Genova: all’attenzione dei carabinieri della compagnia Portoria è finito un gruppo di dipendenti comunali, sembra, quattro tumulatori e tre ispettori compiacenti, che avrebbero fatto dello sciacallaggio un vero e proprio business.

I nomi delle persone sospettate sono contenuti in un’informativa preliminare arrivata in questi giorni sulla scrivania del magistrato che coordina l’inchiesta, il pm Vittorio Ranieri Miniati, che tuttavia non li avrebbe ancora iscritti sul registro degli indagati. L’indagine, che si trova ancora in una fase embrionale, avrebbe preso le sue mosse da una denuncia anonima, ma molto circostanziata, arrivata alla stazione di Portoria (nel centro cittadino) in cui si spiegava che le razzie avvenivano nella sala lavori del cimitero. I furti sarebbero avvenuti infatti nel momento della riapertura delle tombe, in particolare quelle di famiglia, per l’ispezione ventennale, e per il conseguente trasferimento negli ossari o nei settori di Staglieno con le urne cinerarie. I resti dei cadaveri sarebbero stati così depredati di tutto ciò che potesse fruttare denaro, dai gioielli ai denti d’oro, alle protesi ortopediche. I materiali sarebbero stati poi nascosti in loculi o in armadietti, in attesa di essere rivenduti. E il traffico sarebbe andato avanti per anni.

I reati ipotizzati sono quelli di peculato, vilipendio delle sepolture e delle salme, appropriazione indebita, distruzione, soppressione o sottrazione di cadavere. Commentando la vicenda, il direttore generale del Comune di Genova ha affermato: «Nei mesi scorsi anche il mio ufficio ha fatto delle segnalazioni, ma le presunte razzie ai cadaveri non mi colgono di sorpresa. Questi lavoratori, sempre a contatto con la morte, e addetti ad un’attività ritenuta socialmente poco qualificante, sono soggetti ad un abbrutimento psicologico. Quanto accade è sintomatico di uno stress che può sfociare in una devianza o in una depressione».

Tanto che l’amministrazione, che nei mesi scorsi aveva avviato un’inchiesta amministrativa interna, sta mettendo mano alla riorganizzazione dei servizi cimiteriali ed è orientata ad una «rotazione del personale» e ad un «monitoraggio medico dello stato psichico degli addetti».

E il filone sugli sciacalli di tombe si intreccia ora con un’altra inchiesta, quella sulle presunte mazzette, pagate dai parenti dei defunti per velocizzare l’iter delle tumulazioni, sempre nel cimitero monumentale di Genova.

Fonte: La Stampa.it